wtorek, 6 października 2015

Felice Solstizio d'Inverno!

Tu

vuoi sapere secondo quale criterio Pitagora si astenesse dal mangiar

carne, mentre io mi domando con stupore in quale circostanza e con

quale disposizione spirituale l'uomo toccò per la prima volta con la

bocca il sangue e sfiorò con le labbra la carne di un animale morto; e

imbandendo mense di corpi morti e corrotti, diede altresì il nome di

manicaretti e di delicatezze a quelle membra che poco prima muggivano e

gridavano, si muovevano e vivevano. Come poté la vista tollerare il

sangue di creature sgozzate, scorticate, smembrate, come riuscì

l'olfatto a sopportarne il fetore? Come mai quella lordura non stornò

il senso del gusto, che veniva a contatto con le piaghe di altre

creature e che sorbiva umori e sieri essudati da ferite mortali?

Si muovevano le pelli, le carni muggivano sugli spiedi cotte e crude, e come di vacche si udiva una voce.

Questo

è invenzione e leggenda; nondimeno, è veramente mostruoso che un

individuo abbia fame di esseri che ancora muggiscono, insegnando di

quali animali ci si debba nutrire, mentre questi sono ancora in vita ed

emettono la propria voce, e stabilendo determinati modi di condire,

cuocere e imbandire le loro carni. Bisognerebbe cercare chi per primo

diede inizio a pratiche simili, non colui che troppo tardi vi pose

fine.

Qualcuno

potrebbe dire che i primi uomini a mangiare carne furono sollecitati

dalla fame. In effetti, non perché vivessero fra desideri illegittimi,

né perché disponessero del necessario in abbondanza essi pervennero a

questa pratica, sfrenatamente abbandonandosi a inammissibili piaceri

contro natura. Anzi, se in questo momento ritornassero in vita e

riacquistassero la voce, essi direbbero: "Beati e cari agli dèi voi che

vivete adesso! Che epoca vi è toccata in sorte, quale smisurato

possesso di beni godete e vi dividete!

Quante piante nascono per voi,

quanti frutti vengono raccolti: quanta ricchezza potete mietere dai

campi, quanti prodotti gustosi cogliere dagli alberi! Vi è lecito anche

vivere nell'abbondanza senza il rischio di contaminarvi. Noi, al

contrario, abbiamo dovuto far fronte al periodo più cupo e buio del

mondo, perché ci siamo trovati in una condizione di grande e

irrimediabile indigenza fino dalla nostra prima comparsa sulla terra.

L'aria occultava ancora il cielo e gli astri, mescolata a una fosca e

impenetrabile umidità, al fuoco e ai turbini del vento. 'Non ancora il

sole' aveva assunto una posizione stabile,

né con il suo corso fisso distingueva alba

e tramonto, e li conduceva di nuovo indietro < dopo averli incoronati con le stagioni fruttifere

inghirlandate di bocciuoli: la terra era stata violentata

dallo straripare disordinato dei

fiumi, e in gran parte 'per le paludi era informe'. Essa era

inselvatichita da un profondo strato di melma e dal rigoglio di

boscaglie e di macchie sterili. Non venivano prodotti frutti domestici e

non esisteva alcuno strumento dell'arte agricola, né c'era alcun

espediente della ragione umana. A quel tempo la fame non dava tregua, e

il seme del grano non attendeva le giuste stagioni dell'anno. Che c'è

dunque di strano se contro natura siamo ricorsi alla carne degli

animali, dal momento che si mangiava il fango 'e si divorava la

corteccia degli alberi', ed era una fortuna 'trovare un germoglio di

gramigna o una radice di giunco'? Dopo aver assaggiato una ghianda e

averla mangiata, eravamo soliti danzare di gioia attorno a una quercia o

a una farnia, chiamandola datrice di vita, madre e nutrice.

Quest'unica festa era nota alla vita di allora, mentre il resto era

tutto un rigurgitare di turbamento e di tristezza. 

Ma voi, uomini d'oggi, da quale

follia e da quale assillo siete spronati ad aver sete di sangue, voi

che disponete del necessario con una tale sovrabbondanza? Perché

calunniate la terra, come se non fosse in grado di nutrirvi? Perché

commettete empietà contro Demetra legislatrice e disonorate Dionisio

benigno, dio della vite coltivata, come se non vi venissero da loro

doni a sufficienza? Non vi vergognate di mischiare i frutti coltivati al

sangue delle uccisioni? Dite che sono selvatici i serpenti, le pantere

e i leoni, mentre voi stessi uccidete altre vite, senza cedere affatto

a tali animali quanto a crudeltà. Ma per loro il sangue è un cibo

vitale, invece per voi è semplicemente una delizia del gusto".

[...]

Nulla

turba comunque il nostro senso del pudore, non il fiorente aspetto di

queste creature sventurate, non il fascino della loro voce armoniosa,

non l'accortezza della loro mente, né la purezza del loro modo di

vivere e la loro straordinaria intelligenza. Invece, per un minuscolo

pezzo di carne priviamo un essere vivente della luce del sole e del

corso dell'esistenza, per cui esso è nato ed è stato generato. Per di

più, crediamo che i suoni e le strida che gli animali emettono siano

voci inarticolate, e non piuttosto preghiere, suppliche e richieste di

giustizia: poiché ognuno di loro proclama: "Non cerco di scongiurare la

tua necessità, ma la tua tracotanza; uccidimi per mangiare, ma non

togliermi la vita per mangiare in modo più raffinato". Che crudeltà! E'

terribile vedere infatti imbandite le mense dei ricchi, che usano i

cuochi, professionisti o semplici cucinieri, come acconciatori di

cadaveri; ma ancor più terribile è vedere quando esse vengono

sparecchiate: perché gli avanzi sono più abbondanti di quanto è stato

consumato. Queste creature dunque sono morte inutilmente!

(Plutarco, Del mangiar

carne, trattati sugli animali, ed. Adelphi, Milano, 2001, a cura di

Dario del Corno, traduzione di Donatella Magini)

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